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La “cortina di ferro” nelle nostre menti

Era il 1989, non avevo neppure due anni, quando la notizia della caduta del muro più famoso della storia rimbalzò ad ogni angolo della Terra. Quel muro insuperabile, accompagnato da mine anti-uomo, filo spinato e soldati pronti a sparare a chiunque avesse tentato di scavalcarlo (sempre che fosse arrivato vivo anche solo a toccarlo), che per quasi un trentennio divise in due addirittura la popolazione di una stessa nazione.

È il 2015, ho quasi 28 anni, e sento parlare di “costruire muri”. Ovunque. Ma ci siamo evoluti, diciamolo, perché a differenza della Germania, oggi costruiamo muri per separare popoli diversi. Che poi, chi decide che un popolo è diverso dall’altro? Una linea tracciata su una mappa? La lingua che impariamo da piccoli? Oggi costruiamo muri per impedire a coloro che scappano da scenari apocalittici di calpestare quei nostri territori che difendiamo con le unghie e con i denti. Ma li difendiamo da chi? Li difendiamo forse da Abdul, l’uomo fotografato in giro per le strade di Beirut nel disperato tentativo di vendere penne per poter sfamare sua figlia Reem? È lui la nostra minaccia?

Costruiamo muri perché siamo convinti che questo fermi il flusso migratorio, o almeno, siamo convinti che lo fermi verso il nostro paese, poi al di fuori dei nostri confini può succedere qualsiasi cosa. Tanto a noi cosa importa. Invece sbagliamo anche in questo piccolo e superficiale ragionamento, perché poi chi è disperato non ha certo paura a cambiar meta. E se anche quella meta verrà separata da un muro, che problema c’è a cambiarla nuovamente? E così via. D’altronde, a chi non ha più nulla e nessuno, resta solo la vita. Ed è disposto a perdere anche quella nella speranza di tentare il tutto in un viaggio verso la morte dentro la cella frigorifera di un camion.

Dagli Stati Uniti all’India, i muri cambiano aspetto e lunghezza, ma non cessano d’esistere. Continuiamo a discriminare, per un motivo o per un altro, a separare nettamente “noi” – i buoni – dall’ “altro” – il diverso, perciò il cattivo. Non sono altro che figli di quei muri ignoranti e allo stesso tempo pretenziosi che abbiamo sviluppato tutto attorno le nostre menti, trasformandole in fortezze irraggiungibili ed impenetrabili. Quelle stesse menti che nutriamo ogni giorno, comodamente seduti nelle nostre poltrone, con immagini cruente: distruzione, disperazione, barconi che affondano, cadaveri di bambini che affiorano sulle spiagge, come fossero conchiglie lasciate dal mare. Armati dei nostri grandi ed ammirevoli ideali e dei nostri sempre più potenti smartphone, ci abbandoniamo ai social, con tanto di like e condivisioni, perché sembrare impegnati in una causa che in realtà neppure conosciamo va così di moda ultimamente. Perché a noi interessa preservare un’apparenza di tutto rispetto, quando proprio ci va bene. Altrimenti restiamo impassibili davanti alla morte di anime innocenti, davanti alla sofferenza di intere famiglie, o di quello che la guerra ne ha risparmiato. Perché noi, gli immigrati, non li vogliamo e, se proprio dobbiamo dirla tutta, meritano la fine che fanno. Avremmo potuto aiutarli a casa loro, per citare il pensiero di qualcuno, ma non aspettano, sono addirittura impazienti! Neanche rischiassero di restare uccisi da un momento all’altro in un bombardamento!

Di qualsiasi tipologia sia il muro che pensiamo ci protegga da un nemico disarmato, è tramite esso che abbiamo assunto quel potere che si pensava potesse appartenere solo a Dio: quello di decidere la vita e la morte. E cosa ancor peggiore è che crediamo di averne tutto il diritto.

Francesca Toma

Sam

About Sam

di origine siriana, nato a Milano, triennale a Biella e magistrale a Torino in ingegneria dei materiali. Perché ho fatto tutto questo giro? Ancora non riesco a spiegarmelo. Ma forse proprio grazie a questo che sto imparando a vivere tra due mondi, a cogliere il bene di entrambi ma allo stesso tempo costringermi a cercare "il pelo nell'uovo" in ogni cosa, a mettere in discussione tutto e non dare per scontato nulla, dalla quotidianità alla religione. Se dovessi descrivermi in una frase citerei "Quis custodiet ipsos custodes" ovvero "Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?". Niente di più vero.