Mentre riempio scatoloni su scatoloni, in procinto di lasciare quella che è stata casa mia per qualche mese. Mi torna in mente Kabir.
Ma si sa, l’ispirazione ti coglie all’improvviso e nei posti più disparati. Non fai in tempo a prendere penna e taccuino, che già l’impeto è volato via. Però non riesci a dimenticarti dei suoi occhi, così l’unico modo per stare meglio è scrivere, più che puoi e al meglio delle tue capacità.
Non penso sia solo un caso, che proprio mentre sto traslocando, me ne sia ricordata. Inevitabilmente, penso a chi non può decidere come noi, quando andare via, a chi non ha nemmeno il tempo di salutare luoghi e persone care, ne tanto meno può scegliere cosa portare e cosa lasciare. Ma si ritrova così, all’improvviso in un letto del centro chirurgico di Emergency a Kabul, senza famiglia e amici, senza neppure una casa in cui fare ritorno.
Kabir.La guerra ha questo volto, questi occhi. Bisognerebbe trovare il coraggio di guardarli fino in fondo senza voltarsi e ascoltare ciò che hanno da dirci.
foto di @pbbphoto
Questa è la storia di Kabir, da Faryab, che alla tenera età di 5 anni ha perso entrambe le gambe, una sorella e un fratello a causa di un razzo. Il 3 aprile 2016 per lui non è un giorno come gli altri, perché si è ritrovato a giocare per sbaglio con un pappagallo verde.
Così perdi l’innocenza che caratterizza quel età, ti ritrovi subito adulto e senza alcun riferimento vieni facilmente reclutato come bambino soldato o peggio ancora, diventi perfino un’arma. Perché kamikaze non si nasce, ma lo si diventa.
Eppure ci scandalizziamo di più per un kamikaze, piuttosto che per la guerra e i suoi effetti, quando in realtà non è ne più e ne meno che un’arma. Ci sorprende forse il fatto che un uomo possa diventare un’arma, volta ad uccidere. Ma cosa rimane di un uomo senza una famiglia, una casa o un porto sicuro, dove fare ritorno, quando la sua città è rasa al suolo dai nostri stessi missili? Cosa lo lega alla vita? Così vengono gettate le basi per i futuri attentati.
Perché scrivo di queste cose, anche quando sono felice? Perché la nostra felicità è un privilegio! Bastava nascere dalla parte “sbagliata” di mondo, che questi stessi problemi potevano essere nostri.
Mi guardo attorno, osservo quella scatola sul comodino con foto, bigliettini e cartoline, sarà l’ultima che chiuderò, prima di andare via. E mi rendo conto che siamo noi a dare un senso al mondo e alle cose che abbiamo attorno. Non possiamo vivere senza senso, perché non siamo fatti solo di materia, ma di pensieri, ricordi, affetti ed emozioni. Ed è l’insieme di tutte queste cose, che ci lega indissolubilmente alla vita. Non diamolo mai per scontato.